Nuovi stili di una politica per la pace
Gennaio rappresenta davvero un tempo che aiuta a riflettere su temi che trovano poca ospitalità quotidiana nei tg e nei giornali. Tra questi spicca un argomento assai trascurato, quasi dimenticato, ma ben presente nel nostro mondo contemporaneo: il tema della pace. A questo bene preziosissimo è stata dedicata – a partire dal 1968 – una apposita giornata, la prima dell’anno, per volontà precisa di un grande pontefice, qual è stato Giovanni Battista Montini. Bene hanno fatto allora i responsabili IEICP (Incontri Ecclesiali di Impegno Sociale e Politico) di Portogruaro e della Pastorale Sociale diocesana di Pordenone ad organizzare degli incontri informativi e di approfondimento proprio su questo “Bene” tanto necessario, ma che ancor oggi viene negato ad una ventina di Paesi nel mondo, restando dunque un miraggio per milioni di persone. In particolare si è insistito sulla “ non violenza “, come stile di una politica per la pace, partendo dagli stili di vita di ognuno di noi, perché se non c’è la non violenza, c’è la violenza e così si finisce per far ricorso alle armi e ai nuovi fili spinati. Proprio sulle spese militari girano spese ed investimenti da capogiro, in continua crescita soprattutto per gli armamenti. Si parla di 1650 miliardi di dollari spesi per la difesa globale, con in testa gli Stati Uniti, seguiti da Cina, Regno Unito, Francia e Russia. L’Italia ha previsto in bilancio per il corrente 2017 oltre 23 miliardi di euro per le spese militari, che rappresentano l’86% dei fondi a disposizione del Ministero dello Sviluppo Economico, con un aumento del 21% negli ultimi dieci anni. Tradotto in forma più esplicita significa che ogni giorno il nostro Paese spende, a questo scopo, 65 milioni di Euro e ne spende 15 solo per acquistare nuovi armamenti. Quello che più invece deve preoccupare è il mercato delle armi, un giro d’affari mondiale davvero colossale che vale 80 miliardi di dollari. Anche in questo campo l’Italia fa la sua “ bella figura “. Nel 2015, ultimo dato disponibile sulla base di una relazione al Parlamento ed anticipata dal settimanale Nigrizia, abbiamo triplicato la vendita di armi all’estero passando da 2,8 miliardi a 8,2 miliardi di euro, compresi – tra i destinatari – anche Paesi in guerra e dove non vengono rispettati i diritti umani, in particolare verso le aree nordafricane e mediorientali. Il tutto regolamentato da una apposita legge ( n° 185/90 ) sul commercio delle armi che contiene anche i princìpi morali a cui si deve attenere il governo nazionale in questa particolare funzione. Al proposito ci sono stati diversi esposti per chiedere l’effettivo rispetto della legge, ma con pochi risultati. Tutto avviene certo alla luce del sole, anche perché diverse aziende produttrici sono a partecipazione statale ( basti pensare a Leonardo/Finmeccanica che è al 9° posto nella produzione mondiale ), ma le armi, soprattutto quelle piccole-leggere ( pistole, fucili mitragliatori, bazooka, etc.) , finiscono – per varie vicissitudini – in altre mani, direttamente impegnate in azioni di guerriglia, terrorismo e quant’altro. Infatti le cosiddette armi convenzionali stanno diventando sempre meno convenzionali e sempre più simili alle armi di distruzione di massa, grazie al loro crescente potere devastante, che il più delle volte viene usato per commettere crimini di guerra e contro l’umanità. Non è dunque corretto fare alcun tipo di distinzione tra gli armamenti, è stato ribadito sia a Portogruaro che a Pordenone dai relatori intervenuti, perché in ogni caso questi provocano violenze, morte, distruzione, instabilità e miseria. Se ne parla poco, ovvero tanti conflitti non vengono neanche analizzati sotto questi profili, perché queste morti, come quelle dei bambini di Aleppo o delle vittime nell’area sub sahariana, dopo pochi giorni non fanno più notizia. Eppure facciamo tanta fatica a scacciare quelle immagini che ci entrano in casa e fanno male come un pugno nello stomaco. Assuefarsi a queste ricorrenti rappresentazioni diventa, però, ogni giorno più possibile. E’ dal 1945 che “ noi occidentali “ abbiamo la percezione di vivere in un mondo pacifico, ma non è affatto vero. In questi ultimi settanta anni siamo stati testimoni (spesso a distanza) del susseguirsi – quasi senza sosta – di guerre, guerriglie, scontri tribali o a sfondo religioso, invasioni da parte anche di superpotenze e, più di recente, tentativi di conquista del territorio iracheno e siriano da parte dell’Isis. Anche il nostro vecchio continente è stata interessato, non ultima la guerriglia nel Daghestan e l’escalation in Ucraina con migliaia di morti. Ma la pace non è solo mancanza di guerra, perché la prospettiva è del tutto diversa. Dobbiamo tutti prendere piena consapevolezza che nel mondo c’è troppa violenza, c’è troppa ingiustizia, così tanta che nessuna arma basta a combatterla e nessuna guerra può fungere da deterrente. Purtroppo ogni giorno c’è una goccia che va ad ingrossare questo mare immenso di violenza. Non è possibile fare niente, dobbiamo allora arrenderci? Ci si è chiesti e vien da chiedere se dobbiamo rassegnarci oppure c’è ancora spazio per un’utopia, un sogno? Siamo interpellati perché c’è davvero tanto bisogno di ricercare e sviluppare tutti quei mezzi che servano efficacemente a “ reinventare “ una pace che sia frutto di uno sviluppo integrale per tutti e di una presa di coscienza effettiva di una comunità universale fondata sul rispetto, l’ascolto, l’attenzione ai bisogni, la giustizia, il dialogo e la condivisione. Deve essere proprio la pace a sfidarci al cambiamento, ma ci viene richiesto un rinnovato spirito di dialogo e di fraternità. Tutto parte, come dice papa Francesco, dal cuore e dalla coscienza degli uomini, se vogliamo davvero essere testimoni ed anticipatori di un Bene troppo prezioso per essere ancora sottovalutato o peggio mistificato.
Gigi Villotta
26 gennaio 2017